
"Che bello che esistano i jeans strappati!" mi sono detta in uno dei tanti giorni monocromatici che ibernano, avvolgendosi tra le colline intorno alla città senza dare alcun segno di risveglio, senza uscire dal loro rifugio di cemento. Ero su un mezzo di trasporto pubblico affollato e, all’improvviso, ho capito che la sensazione di soffocamento che provavo era dovuta al fatto che tutti erano vestiti di nero, marrone scuro o di un cupo blu navy. Sembrava di essere in una cripta mobile in un film horror con morti viventi, addestrati a fare ciò che fanno anche i vivi-morti, nel solito tragitto quotidiano casa-lavoro-ipermercato, e ritorno.
Eppure, un raggio di luce salvifico è apparso da uno dei sedili davanti a me, dove un ginocchio bianco spuntava attraverso lo strappo nei jeans di un’adolescente. Anche lei era vestita di nero, con una spessa linea di eyeliner tracciata sulle palpebre, come uscita dagli anni '60. Niente avrebbe interrotto l’asfissia della monotonia compatta, se non fosse stato per quel taglio che ancora buona parte della popolazione non riesce a comprendere. Quella fessura bianca aveva l’effetto della luce che filtra attraverso la cupola del Pantheon romano, una luce che non si irradia, ma colpisce un punto preciso, lasciando intatto il resto dell’oscurità in cui si muovono turisti, fedeli e morti viventi.
Forse la moda non "crea più silhouette", ma solo uniformi per vaghe "subculture", prodotte in serie come le loro cuciture e destinate a scomparire non appena ne compaiono di nuove sulla catena di montaggio. Tuttavia, è ancora perseguitata dal corpo, come da un’appendice inutile, che può essere trattata solo in modi estremi: o la si affoga in abiti oversize e unisex, oppure la si espone come un pezzo di carne confezionato sottovuoto, con leggings e top attillati. La silhouette è un concetto superato per i tempi post-umani, e il taglio che lascia intravedere la pelle sembra un’appropriazione culturale di una tradizione antica e sorpassata, come un pesce di vetro che non trova più posto sopra un televisore al plasma, proprio come il corpo nella sua fioritura e decadenza non trova più spazio accanto al corpo eternamente ottimizzato.
Non ho mai saputo cosa pensare dei jeans strappati. Se borchie, metalli e piercing al naso mi facevano ridere o mi ricordavano gli animali torturati e marchiati, e se i vestiti aderenti mi facevano pensare ai corpi perfettamente photoshoppati delle supermodelle o alle chanteuse sulle terrazze del litorale degli anni '80, i jeans strappati mi lasciavano perplessa. Quando mia zia mi ha chiesto: "Bambina mia, quei pantaloni strappati li compri così in negozio? Madonna santa! Ma perché spendere soldi per vestiti già rotti?", non sapevo cosa rispondere. I jeans strappati non sembravano rientrare nella stessa categoria dei "capelli lunghi" che volevano essere una sfida al regime o all'ordine costituito.
Non so se oggi un adolescente risponderebbe alla domanda "Perché indossi jeans strappati?" con "Perché mia madre li portava interi". Probabilmente li indossa perché è la moda e perché è il nuovo modo di mostrare troppo o troppo poco attraverso le uniformi culturali prodotte due volte l’anno. Forse rimarrebbe sorpreso di scoprire che né i tanto criticati leggings, né i vestiti strappati sono una novità. Dopo che l’ultimo duca di Borgogna fu ucciso nel 1477, le truppe svizzere saccheggiarono i villaggi della regione. Tagliarono pezzi di tende e stendardi e li inserirono nei buchi dei loro vestiti. I ricchi dell’epoca adottarono questa moda, che fece scalpore in Europa, diventando un segno distintivo di coloro che potevano permettersi abiti con dettagli unici, intricati, dai colori sgargianti.
I jeans strappati sono lontani dalle battaglie medievali e lontani dalla moda rinascimentale. Il loro taglio non rivela strati successivi e giochi di colori, ma porta alla luce un vuoto che non rientra più né nella sfrontatezza né nella moda radical chic, bensì è una dichiarazione, uno statement, che nella moda di oggi si riduce ad attirare l’attenzione.
Nella nostra piccola città, il tentativo di attirare l’attenzione si riduce a tre metodi: o la si attira con le proprie curve (imitando le pose delle star dei reality show), o con l’omologazione in serie alla moda da centro commerciale, o con l’ostentazione di un accessorio o più, che supera il potere d’acquisto di molti. I jeans strappati sono un capo onnipresente. Si adattano ovunque e in nessun luogo. Sono come la celebre Coca-Cola che Andy Warhol considerava parte della grandezza dell’America, dove "i consumatori più ricchi comprano, in sostanza, le stesse cose dei poveri". Con i jeans strappati, è difficile dire se sei ricco o povero (potresti essere entrambi), banale o alla moda (potresti essere entrambi), chic o di cattivo gusto (potresti essere entrambi). I jeans strappati rimandano direttamente all’essere primordiale, lasciando in eterna ambiguità le sue manifestazioni.
Non ho saputo cosa rispondere a mia zia. Ho detto timidamente: "Così si usa adesso". E riflettendoci su, ho capito che i jeans strappati, anche se non rappresentano nulla in particolare (nessuno spirito di ribellione, nessuna battaglia culturale o medievale, e nemmeno un sofisticato gauche caviarism), sono, almeno per chi non li indossa, il segno di un mondo scomparso, in cui esistevano vestiti della domenica e vestiti da lavoro, giorni di festa e giorni qualsiasi, persone e oggetti, il mondo di qua e l’aldilà, il bene e il male, la scienza e la politica – un’intera serie di delimitazioni che i filosofi continuano a smontare, dicendoci che "non siamo mai stati moderni", che, in realtà, non abbiamo mai saputo separare bene le cose, anche se ci siamo illusi di poterlo fare, in spirito illuminista e progressista.
I jeans strappati sono diventati, almeno per me, il segno di un "qui e ora" senza storia e senza molto futuro, un segno che non è più il prodotto di alcuna dicotomia, una sorpresa, uno squarcio, un taglio che libera la luce del corpo in piccole dosi, tracciando segni casuali in Pantheon rimasti senza dèi e senza la loro memoria. I jeans strappati sono altro rispetto a ciò che sono stata io. E non riuscirei mai a immaginare quale potrebbe essere il loro "altro".
Foto e testo: Oana Pughineanu
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