miercuri, 12 februarie 2025

La vita in campagna

 




 




Ho avuto contatti costanti con ”l’eternità nata nel villaggio” fin dall’infanzia. Faccio anch’io parte della generazione di bambini che avevano nonni e bisnonni al "paese", cioè da qualche parte molto vicino alla città, ma con un orto, animali, le fatiche dell’agricoltura che, se non era di sussistenza, era sicuramente su piccola scala, con grandi spese e profitti insignificanti in denaro o prodotti. Eppure, nei loro occhi, suscitava una gioia per me incomprensibile. Era qualcosa ottenuto "dal nostro". Insomma, era qualcosa in più rispetto a quello che potevi ottenere con la razione presa con la tessera dal negozio di alimentari in città. Ma più di tutto, era l’amore dei nonni e dei bisnonni per la coltivazione della terra. L’orto e la casa erano il loro posto nel mondo. Ancora oggi, sono sentimenti che mi restano estranei. Non mi sono mai sentita così attaccata a qualche metro quadrato, né alle rate o agli affitti che li rendevano "miei".

Restare in un posto, se dovessi tradurre nel linguaggio dei miei nonni il sentimento che mi dà, significa "essere dimenticati lì da Dio". Restare in un posto è una maledizione. Sentirsi a casa significava accettare un destino sisifico di giorni uguali, in città di cemento in cui non succede mai nulla, nonostante le centinaia di "eventi", "festival" e presentazioni di libri 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Le estati sono più oscure degli inverni in queste città, da quando i social media ci seppelliscono in paradisi en gros. Puoi occupare il tempo con libri, film, niente. Libri, film, niente. Libri, film, niente. Pian piano, mentalmente, ritorni al cortile e all’orto dei nonni. Forse lì potresti fare qualcosa, qualcosa di tuo. Piantare un fiore, preparare una pannocchia di mais bollita appena raccolta dall’orto, avere una gallina da amare e a cui non spezzare mai il collo.

Passare i pomeriggi su un vecchio letto messo in veranda, ascoltando il flusso continuo delle macchine, qualche uccello e le urla dei paesani che cercano di scacciarli, oltre alla musica al massimo volume del vicino sempre di buon umore. L’aria sarebbe comunque migliore, anche se di tanto in tanto contaminata dalle plastiche cancerogene bruciate insieme a chissà quali altri rifiuti. Ti rimane molto tempo per te. Così rinunci al supermercato in città e vai solo alla "bolda" (parola ungherese romenizata per alimentari) del paese (ovvero, i tre minimarket con prezzi da grande città).

Ogni volta che esci di casa, la vicina di fronte esce anche lei. Sempre con la borsa di plastica vuota (sia all’andata che al ritorno) e sempre desiderosa di raccontarti assolutamente qualcosa. Dieci case più in là, un’altra vicina vuole raccontarti anche lei qualcosa. E ancora dopo dieci case, lo stesso. Tutto ruota attorno alle eredità. A chi rimane cosa. Davvero? Non mi dire? Ho sentito dire che la casa gliel’hanno presa i pentecostali. Ma quando si fa il parastas*? Sai… la gente parla. Beh, comunque parlano, no? Al funerale nessuno ha messo i quattro nastri neri sulle candele. Ah! E il morto non può entrare in paradiso per questo. Dio, creatore dell’universo, conta tutti i suoi divini nastri funebri. È peggio di un controllo ferroviario super severo.

Ma il banchetto è stato bello. Tutti si sono meravigliati che tu abbia fatto un pranzo così sontuoso per tua zia. Al "Pesciolino d’Oro". Ristorante con lago e pensione con piscina. Lusso. Il prete è rimasto sorpreso dal tuo braccialetto rosso. Ma non è rosso, cara vicina. E non è nemmeno un braccialetto. È un filo arancione fosforescente con una piccola rana metallica scolorita, un souvenir da Mamaia. Non è quel braccialetto ebraico a cui ha pensato il prete. Siamo infestati da molti spiriti maligni, ma quelli di Mamaia sono innocui, normali, vogliono solo soldi. Se il signor prete è insoddisfatto, può trasformare la vodka in acqua quando viene al parastas. No, vicina, non dimentico. Ancora 50 lei per l’uomo che suona la campana. Buona serata. Ci vediamo domani, quando andremo di nuovo insieme alla boldă. Oppure vieni a prendere un succo al bar "A Scuola"?

Oh cielo! Io non ci vado lì! Dalle 6 del mattino arrivano gli operai e i pensionati per prendere il loro caffè con rum e commentare sui pantaloncini corti delle adolescenti alla fermata dell’autobus (nel caso non siano proprio le loro nipoti). L’eternità del villaggio non ha ancora incluso nei suoi programmi culturali corsi sul cat-calling. E nemmeno donne che vanno al bar a bere una birra.

Cioè "A Scuola" (perché è accanto alla scuola), un hangar dell’ex cooperativa, diviso per motivi per sempre sconosciuti in due parti assolutamente identiche. Due bar con terrazza e oggetti strani in vendita: sale da bagno in colori radioattivi, quadri motivazionali (tipo Live, Love, Laugh), wafer pre-rivoluzionari, nani da giardino ipermoderni (a forma di funghi e teste rosa di donne) colati dalla moglie del barista, caffè a due lei (0,50 euro) e poster con donne seminude che pubblicizzano la vodka V33.

Intorno, case ordinate, fiori che pendono come "nelle cartoline", erba tagliata e pulita ossessivamente, giorno dopo giorno. Una sorta di Viscri senza re (Viscri è un paesino amato da King Charles. Ha una casa li e va ogni estate per cacciare). Decine di stanze in cui probabilmente non è entrato nessuno negli ultimi 40 anni (forse solo gli ultimi morti, che venivano tenuti tre giorni in casa). Le stanze buone, per le occasioni, con soprammobili e servizi dorati portati dalla Cecoslovacchia. Federe ricamate e vecchie coperte fatte a mano, disinfettate ogni anno. Cani tenuti alla catena e nutriti con ossa e avanzi di kürtőskalács. Icone. Tanto buio. Animali microscopici preistorici che inspiri ogni notte insonne, sentendo tutti i morti della casa che vengono a sistemare ciò che hai spostato durante il giorno.

Ma no, non esiste una cosa del genere. Sciocchezze! Scorri su Instagram. Guarda delle unghie finte, qualche mare cristallino. L’aldilà è qui. Qui, dove puoi lasciarti dimenticare da Dio (ti sei comprata un prosecco in città per questa occasione speciale). E poi c’è ancora da fare il recinto, il tetto, pulire la vigna, magari piantare un pomodoro, una peonia, prendere una gallina da amare e a cui non spezzare mai il collo...


(*Parastas = cerimonia religiosa ortodossa in memoria di una persona defunta)

Foto e testo: Oana Pughineanu

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