duminică, 6 martie 2022

Il cortile sul retro

  



Dopo aver girato le zollette di zucchero, il signor Beanu colpiva sempre due volte la tazzina di caffè con le righe azzurre, marca OJT. Non riusciva in nessun modo a ricordare come fosse arrivata nella tasca del suo cappotto buono. Quella tazzina si trovava in tutti i ristoranti che organizzavano matrimoni mostruosi e battesimi discreti. Ai tempi del signor Beanu, la venuta al mondo era festeggiata con pochi invitati, dopo un breve esorcismo alla cattedrale grande, seguito dal consumo di grappa in bicchieri di plastica arancioni sui gradini dietro la statua di Mihai Viteazul. Sua moglie lo osservava stupita da dietro una faccia ormai pietrificata dopo tre parti, e un tempo esageratamente lungo passato tra i gerani del balcone a tenere d’occhio i quattro figli, due gemelle e due maschi. Le ragazze saltavano la corda, il più grande uccideva scoiattoli con una fionda caricata ad aghi, e il figlio mezzano spariva a rubare susine dal giardino del ristorante Mureș. Era come se metà dei bambini vivesse in città e l’altra metà in campagna. La casa stessa aveva l’aspetto di una ricca tenuta di campagna trasformata in un condominio diviso in cinque appartamenti, abitati per la maggior parte da persone con origini sociali malate. La famiglia Beanu era probabilmente la sola totalmente sana. Nell'arredamento piccolo-borghese delle tre camere, tra l’immancabile vetrina con la cristalleria, i box da bambino sotto strati di coperte, i tavoli di formica lucida sistemati perfettamente al centro e i letti monolitici sotto le pareti di un rosa scolorito - con la riga marrone a pochi centimetri dal soffitto che segnalava gli scalini di un empireo di cemento - i membri della famiglia si spiavano e si nascondevano gli uni dagli altri, rimandando per anni una battaglia decisiva, come animali che istintivamente riconoscevano di essere della stessa taglia e dello stesso peso, senza grandi chance di avere la meglio una volta per sempre gli uni sui corpi degli altri.

Di solito, tra le pareti si udiva il primo urlo della signora Beanu intorno alle 07.20. Le sue urla mi hanno salvato negli interminabili pomeriggi di inverno, quando i miei nonni erano presi nelle riunioni di partito, tempo durante il quale non riuscivo a fare altro che fissare per ore il riflesso nella vetrina della libreria: l’abat-jour come l’elmetto di un soldato-bambino, il cuscino bianco e rosso un incidente cerebrale, e la mia faccia tra loro mentre provavo a stare immobile per non svegliare gli orsi e i lupi sotto il pianoforte. Ogni rumore domestico allentava la tensione dell’attesa. Non lontano da me c’erano bambini picchiati, bambini che non riuscivano a prendere più di 6 in rumeno, bambini che non capivano né la trigonometria né gli aneddoti scherzosi della storia, con i romani che correvano dietro alle ragazze daciche. Le botte alle gemelle e i loro pianti erano diventati una fonte di tranquillità che nessun abbraccio avrebbe eguagliato e di cui non potevo più fare a meno, neanche quando i miei erano accanto a me. Svegli o addormentati, avevano finito per confondersi con il buio delle ore in cui mancavano anche quando erano presenti. Eravamo tutti contaminati da quest’oscurità, come mescolati in un impasto. Sentivamo di avere ognuno un posto soltanto una volta usciti di casa. Se fossimo riusciti a starcene sempre fuori, senza tornare mai più dentro, saremmo stati felici come una delle famiglie delle pubblicità per detersivi.

Nei giorni di pioggia incontravo le gemelle attraverso il buco nella zanzariera che per via della statalizzazione della casa divideva la nostra sala da pranzo dal loro balcone. Una di loro cercava di imparare tutto a memoria, e ascoltava in modo ossessivo, nelle pause dallo studio “Ragazza cara, non esser triste”. L’altra cantava nel coro alla chiesa, voleva diventare una perpetua e puliva, agli ordini del prete, l’icona dalle tracce delle tante labbra che l’avevano sfiorata, anche se era convinta che dalla madre del signore non si potesse prendere nessun batterio.

I ragazzi si vedevano raramente, quando provavano a strappare la nostra collezione di involucri di cioccolata straniera. Ma la loro vera passione era sgattaiolare nel cortile sul retro. Lì c’era tutto ciò che era prezioso per il signor Beanu, per quel futuro che aveva messo insieme, un pezzo dopo l’altro, dai cataloghi Nekermann ottenuti sottobanco: la nostalgia dei luoghi in cui era cresciuto combinata con l’immagine del membro di partito più sveglio, che aveva ormai raggiunto il massimo del benessere, con un appartamento in città, una casetta da villeggiatura e due Dacia. Il cortile apparteneva alla Banca Agricola dove il signor Beanu lavorava come autista del direttore. Su quello straccio di terra, il sogno della sua vecchiaia aveva sviluppato ali così imbizzarrite che non restava altro da fare se non aspettare che gli anni scorressero, che i suoi figli lasciassero casa, e che sua moglie a poco a poco si devitalizzasse. Il signor Beanu era riuscito a costruirsi una baita con solide travi di legno, dotata di tutto il necessario per una vita di montagna: una stufa a legna, una cassapanca con coperte tradizionali di lana, un tavolo con due sedie imbottite prese dalla hall della banca, e due minuscole finestre da cui gli animali della foresta non potevano entrare di sorpresa. Di fianco aveva costruito un porcile in cui allevava due maiali per Natale, e nessun bambino aspettava Moș Gerilă prima di sentire i grugniti raccapriccianti delle bestie sgozzate. Il signor Beanu riusciva a vivere nel suo sogno solo nel momento in cui andava a dare da mangiare ai maiali. Era contento tuttavia che le cinque bocche che manteneva producessero scarti sufficienti per le sue bestie. Con i maiali parlava a bassa voce, come un genitore, spesso dimenticando che li allevava per i suoi figli e non il contrario.


Entrai all’improvviso nel cortile sul retro, una mattina d’inverno che il signor Beanu aveva la febbre. Una gemella aveva ricevuto le chiavi per dare da mangiare a Hitler e Stalin, battezzati così perché erano in grado di ruggire tanto da indurre le impiegate della banca agricola a farsi ossessivamente il segno della croce. La paura con cui lanciammo il pastone ai due animali senza guardarli, ma percependo il loro respiro nervoso, fece sì che una volta dentro la baita ci mettessimo un po’ prima di abituarci al buio dell’interno, che il pulsare delle tempie rendeva consistente come una gelatina in cui potevamo muoverci a stento. Tra i contorni appena sbozzati di quei pochi mobili, c’erano tre punti di un verde fosforescente, sicuramente gli occhi e la bocca di un demone che ci fissava dalla parete oltre la quale stavano i maiali. Rimanemmo immobili finché la luce fioca del mattino sciolse il buio e al posto del demonio prese forma il corpo abbronzato di una donna culturista con un costume di uno sgargiante verde fosforescente. Accanto a lei pendevano altri corpi nudi, tagliati in due dalla linea della pagina centrale delle riviste, stipate accanto a una sedia. Sulla prima copertina lucida, una signorina con le gambe allargate reggeva in una mano una confezione di popcorn e si portava l’altra agli slip, con metà delle dita coperta dal tessuto a pois. Di sopra, in caratteri rossi, c’era scritto Playboy e accanto al corpo altre parole in inglese scorrevano una dopo l’altra: “our new army can’t fight”, “playboy’s boldest bunnies”. Esercito? Coniglietti? Il battito delle tempie si diffuse per tutto il corpo, e la pelle era diventata una ragnatela di ortiche. I grugniti dei maiali uscivano da quei corpi lucidi. Cominciammo a correre finché non arrivammo alla rete per le zanzare, ognuna sul nostro lato, quello giusto.

Non uscii più a giocare per alcuni giorni di fila e non accompagnai mai più Codruța in chiesa. Senza capire perché, non piangevo più la notte al pensiero che sarebbe andata in convento e che sarei rimasta sola con gli orsi e i lupi sotto il pianoforte. Avrebbero potuto divorare i maiali in un secondo.

Oana Pughineanu