luni, 24 martie 2025

L’arte spalmabile

Qualche anno fa mi trovavo a Genova e, passeggiando per il centro, ho scoperto che c'era una mostra dedicata a Modigliani. La fila per i biglietti era modesta, quindi, inaspettatamente, in breve tempo mi sono trovata di fronte ai celebri ritratti. Ma la sorpresa più grande è arrivata all'uscita del museo, quando ho consultato un opuscolo informativo e ho scoperto che molti dei dipinti erano copie. Ho subito pensato che non sarei entrata nel museo se lo avessi saputo, anche se mi rendevo conto che, come qualsiasi altro visitatore, non mi sarei accorta della differenza tra una copia e un originale, e che questo vale per tutte le mostre che ho visto finora. Nel mondo obeso di riproduzioni di ogni tipo, la qualità di un prodotto culturale dipende, prima di tutto, dall'onestà intellettuale dell'istituzione, del curatore e solo dopo dall’"appetito" del visitatore.

Nel caso di Modigliani non potevo rimproverare nulla all'istituzione, ero io a non essermi informata e a essere caduta nella trappola dei manifesti, sui quali ovviamente non si può scrivere "falso", proprio come non si può scrivere sulla scatola di un farmaco quale sia il peggior effetto collaterale.

Ma questi sono eventi di un'epoca in cui il post-verità e i deepfake non erano ancora stati inventati. Da qualche anno, l'Europa è infestata dal fantasma dell'arte in modi nuovi, interattivi, divertenti. È infestata soprattutto da un fenomeno di grande successo che chiamerò arte spalmabile. Uno (l'unico?) degli aspetti positivi di questo fenomeno/momento instagrammabile è che tutti, dal visitatore al curatore (ne serve uno o il curatore è la tecnologia?) e al direttore dell'istituzione, sanno che ciò che viene spalmato sui muri è una copia, un falso.

Come per i centri commerciali, il primo motivo di vanto di questi spazi espositivi è la grandezza (mi ricorda la barzelletta sul nano più grande che si trovava in URSS). Si parte da un minimo di 4000 mq e persino le opere spalmate vengono descritte nella stessa prospettiva: ad esempio, la mostra di New York comprende "500.000 metri cubi di proiezioni, 60.600 fotogrammi video, 90.000.000 di pixel". Sembra una prova di resistenza per occhi e articolazioni e non so se sia già stato calcolato il limite di metri cubi di bellezza che il fisico umano può sopportare.

Massimiliano Siccardi di Siccardi Immersive Creations s.r.l., diventato un’autorità assoluta in questo genere di spettacoli, è stato interrogato in un’intervista del 2022 concessa ad Artribune se considerasse le sue installazioni opere d'arte indipendenti rispetto alla creazione di Van Gogh (ad esempio). La risposta è, purtroppo, onesta: «Sì, crediamo che l'installazione immersiva sia un'opera d'arte. Lavoriamo con i grandi pittori perché è più facile: l'iconografia è già nota, c'è già una narrazione». È chiaro che non avrebbe alcun senso proiettare su un muro un artista contemporaneo che nessuno riconoscerebbe nei milioni di selfie che verranno postati sulle pagine Facebook. Con un Leonardo, invece, si possono attrarre quei settori di popolazione che possono permettersi solo "esperienze", arte in stock, un po' di evasione dalla quotidianità, un'uscita da TikTok per entrare in un "metavers" spalmato sui muri e brandizzato.

Nel caso di artisti come Leonardo, cosa può restare delle tecniche rivoluzionarie che ha utilizzato? Chiaroscuro, sfumato (l'attenuazione dei contorni per ottenere una transizione tra i toni di colore), prospettiva aerea (per dipingere il modo in cui la luce e l'atmosfera influenzano la percezione degli oggetti distanti), prospettive multiple e luci artificiali (lo studio della luce calda, gli effetti della luce ambientale e della luce artificiale), l'uso della luce come elemento narrativo (utilizzare la luce per guidare lo sguardo dello spettatore e sottolineare il simbolismo delle scene religiose). Potrebbe rimanere un selfie con una porzione di quadro o tante immagini di altre persone che camminano "attraverso" il quadro, diventando piccole macchie d'ombra nel grande spettacolo di Las Vegas dedicato all'arte classica. Leonardo non lo sapeva, ma era un puntinista. Proprio come tutti gli altri.

Ciò che però è più triste in questa truffa è che l’esperienza è impropriamente chiamata immersiva, a discapito di artisti che producono davvero opere di questo tipo (giocando con tutti i sensi) e che talvolta richiedono anni di lavoro. Uno di questi è Olafur Eliasson, che talvolta prende Leonardo come punto di partenza per il proprio discorso artistico. Le installazioni fanno sì che il pubblico diventi parte dell’esperimento. «Leonardo e il Rinascimento hanno reso il mondo visibile, ma hanno operato in un'epoca centralizzata, con una visione gerarchica e militarista della conoscenza [...]. Leonardo ha studiato la meccanica dei muscoli e l'arte, ma io sono più interessato agli aspetti psicologici e sociali dell'arte e della natura. Per questo costruisco ponti e facciate che riducono la distanza tra le persone e favoriscono l’inclusione».

Installazioni come Din Blinde Passager (un tunnel lungo 295 piedi riempito di una densa nebbia giallastra che non permette di vedere le persone davanti a sé se non a pochi centimetri di distanza, un'esperienza claustrofobica oscillante tra horror ed eccitazione) o Room for One Colour, basata sullo studio della luce nel Rinascimento, utilizzano lampade a monofrequenza per annullare qualsiasi percezione del colore, trasformando lo spazio espositivo in un grande ambiente monocromatico. Secondo Eliasson, «l'esperienza di essere in uno spazio monocromatico varia, ovviamente, per ogni visitatore, ma l'impatto più evidente della luce gialla è la realizzazione che la percezione è acquisita: il filtro rappresentazionale, o la sensazione improvvisa che la nostra visione semplicemente non sia oggettiva, diventa cosciente, e con ciò la nostra capacità di vederci in una luce diversa». Queste installazioni sono concepite per far sì che i visitatori "si vedano sentire".

Concepire l’interazione con il visitatore è un po’ più complicato che spostarlo dallo schermo del telefono a uno schermo più grande, in cui "entra", cammina circondato dal colare dei classici, spesso realizzato piuttosto male tecnicamente. Sotto l’ombrello della cosiddetta democratizzazione dell’arte e persino dello snobismo, utilizzando tecnologie obsolete si può rivisitare qualsiasi secolo artistico in versioni sempre più annacquate.

Nel volume Contemporary Art and the Digitization of Everyday Life, Janet Kraynak, storico dell’arte e professore alla Columbia University, osserva che il museo, «invece di essere sostituito da internet, viene sempre più riconfigurato secondo il suo modello». Quasi tutti gli spazi culturali diventano «veicoli per la produzione di contenuti» e non mirano affatto a far uscire lo spettatore da una zona di comfort intellettuale. I musei, dice, assumono una funzione «terapeutica» (alcuni parlano persino di un'esperienza trascendentale). Ma cosa potrebbero curare? Nemmeno le tasche dei millennials, probabilmente la generazione più indebitata della storia.

Foto e testo: Oana Pughineanu

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