
Un enorme orso di peluche accompagna nei giorni di sole il
piccolo gruppo di sostenitori della vita, contrari all’aborto, che
si riuniscono davanti alla Biblioteca Centrale. Lo vedo ogni giorno,
anche quando viene lasciato abbandonato al piano terra della BCU
durante il freddo o la pioggia. È un'enormità impolverata, con uno
sguardo triste… che quasi richiama alla mente i veri orsi
maltrattati, addestrati a "ballare", orsi che accompagnano
rituali umani assurdi, ma considerati buoni per essere inseriti in
una pagina culturale celebrativa della diversità, per intrattenere
qualsiasi osservatore esterno per qualche minuto. Anche l’orso di
peluche non è altro che un "costrutto culturale",
associato, qui, al miracolo della vita. Tuttavia, solo dopo la
nascita, il grado di precarietà in cui viene gettato il nuovo essere
deciderà se "sostenere la vita" sia equivalente a "opporsi
all'aborto". Nel "politeismo morale" che caratterizza
i nostri tempi, ognuno ha il diritto di adottare, rimanere o uscire
da varie metanarrazioni. Sicuramente, in Romania, la metanarrazione
religiosa occupa molte menti e anime. Come nel caso della
ridefinizione dell’unione tra un uomo e una donna, essa può
imporre in modo aggressivo temi nell'agenda pubblica. Come la
clonazione, anche l'aborto (la possibilità tecnico-medica di
manipolare vita e morte) appare come una "mostruosità",
nella misura in cui entrambi distruggono l’unicità della persona.
Ma sostenere la vita potrebbe non essere altro che il prolungamento
di una crudeltà, l’estensione di uno stato moribondo senza motivo,
in nome di una sacralità che attende ancora gli effetti della
provvidenza divina.
Le parole del leader polacco sono significative in tal senso.
Jaroslaw Kaczynski ha dichiarato al Parlamento: «Ci sforzeremo
affinché le gravidanze difficili, quando il feto è condannato a
morte o gravemente deformato, portino comunque alla nascita, così
che il neonato possa essere battezzato, ricevere un nome e essere
sepolto». Il partito Diritto e Giustizia, che sostiene
l'inasprimento delle leggi anti-aborto (prolungando non solo la
sofferenza del feto, ma anche quella della madre), dimostra, persino
nel nome, il drammatico conflitto tra diritto e morale. È chiaro che
in questo caso il diritto viene chiamato a imporre la legge per
sostenere una morale cristiana che non può più imporsi solo
attraverso il "foro interiore" e che non riesce più a
coordinare un’intera società.
Nel 1883 il giurista tedesco Rudolf von Jhering poteva affermare
che la legge mira a unire coloro che "guardano lontano"
contro coloro che vedono solo ciò che è vicino, e che i primi
dovrebbero costringere i secondi a fare ciò che è nel loro stesso
interesse. Allo stesso modo, la politica guardava al futuro, e
insieme al diritto «organizza e disciplina il comportamento
umano nelle principali relazioni sociali». Diritto e politica
non avevano a che fare con interessi particolari, ma con la natura
comune dell’umanità, che doveva essere guidata nel lungo periodo.
All'epoca in cui il giurista tedesco scriveva queste parole, il
diritto occupava comunque solo una parte tra le forze che
costringevano gli uomini. La religione, l’etica, le consuetudini e
la "natura" governavano ancora il comportamento umano che,
al di fuori della legge, poteva essere severamente sanzionato dalla
società in cui viveva. Una volta liberati da tali vincoli, il
diritto rimane per molti il luogo in cui cercare risposte a problemi
che un tempo erano chiaramente definiti al di fuori del diritto. (Ad
esempio, nessuno avrebbe pensato di citare in giudizio i propri
genitori per averlo battezzato con un nome anziché con un altro,
come il giovane del Missouri che ha fatto causa ai suoi genitori
perché lo avevano chiamato Gaylord. E nemmeno i genitori avrebbero
fatto causa al figlio di 30 anni per continuare a vivere con loro).
Ci sono molti casi ridicoli di cause intentate o respinte, che
dimostrano come il diritto non diventi solo la nuova forza attraverso
cui si giustifica il trattamento di casi eccezionali o si sostiene un
potere statale abusivo (vedi il caso di Salvini, assolto dai senatori
dall’accusa di sequestro di persona e abuso di potere), ma come il
suo corpo diventi sempre più infiammato, toccando la cosiddetta
"vita nuda", che non può più trovare risposte a problemi
che superano la semplice "amministrazione". Un caso estremo
con accenti tragicomici è rappresentato dall’antinatalista Raphael
Samuel, un ventisettenne di Mumbai che ha citato in giudizio i suoi
genitori per averlo messo al mondo senza il suo consenso ("Indian
man to sue parents for giving birth to him," BBC, 7
febbraio 2019). Tralasciando l'assurdità della richiesta di un
consenso da parte di un non-esistente (tralasciando anche il fatto
che l'umanità discute e si consulta da millenni con entità non
fisiche), il giovane antinatalista potrebbe trarre ispirazione da
antiche fonti buddiste, cristiane o filosofiche. In effetti, è
diventato una sorta di celebrità su Facebook, con la pagina
Nihilanand, dove pubblica meme come: "Non è forse
un rapimento o una schiavitù costringere un bambino a venire al
mondo e obbligarlo ad avere una carriera?", "I tuoi
genitori ti hanno avuto al posto di un giocattolo o di un cane, non
devi loro nulla, sei il loro intrattenimento", o "Se
hai un problema con qualsiasi cosa in questo mondo, non hai il
diritto di avere figli". I termini usati dal giovane
antinatalista sono sicuramente rilevanti per la "dissoluzione
della famiglia", che non viene più vista né come mezzo per
mantenere e trasmettere beni, né come alleanza basata sull'affetto o
sulla celebre "relazione pura" descritta da Giddens. La
famiglia sembra piuttosto un "incidente" psicologico,
prodotto da troppa pubblicità, film romantici e mancanza di
immaginazione di chi non riesce ad adottare modelli poliamorosi ma
non sopporta nemmeno la solitudine "individualista".
Inoltre, il corpo che oggi si vuole docilizzare e migliorare è
diverso dal corpo "naturale". Esso è già "clonato"
negli spazi virtuali e, grazie alle nuove tecnologie, occupa uno
spazio e un tempo differenti rispetto a quelli "naturali".
Ciò che però rimane una costante per questo nuovo corpo è la
sofferenza (fisica e morale), impossibile da "risolvere"
nei processi e, secondo alcune nuove voci filosofiche, impossibile da
regolare attraverso le "etiche positive", che non mettono
in discussione la capacità umana di realizzare il bene. Julio
Cabrera e la sua "etica negativa" non esitano ad affrontare
temi tabù per eccellenza, arrivando a riflettere sull’assenza di
valore della vita umana, sull’astinenza o sul suicidio, nel secolo
del pensiero positivo, in cui ogni problema è trattato o come una
"mancanza di fiducia in se stessi" o attraverso una ricetta
attentamente calibrata.
In A critique of affirmative morality: a reflection on death,
birth and the value of life, Julio Cabrera avverte fin
dall’inizio il lettore riguardo a due costanti del suo libro: il
radicalismo della domanda posta dall’etica negativa e il fatto che
si tratta di una filosofia che non rende le cose interessanti. A
differenza della metafisica e delle etiche positive, non enfatizza
mondi trascendenti, più o meno ideali, a cui dovremmo in qualche
modo conformarci per raggiungere uno stato di benessere. Julio
Cabrera si concentra anche sulla natura ripetitiva ed estremamente
prevedibile, quella natura che per secoli gli esseri umani hanno
ritenuto, in realtà, di non conoscere, di non avere accesso a essa,
dato che tutto risiede nella mente, nelle parole o nei simboli. Come
se la mediazione potesse annientare la realtà o il decadimento
inevitabile dei corpi. "Come se la dinamica della verità fosse
confusa con la dinamica della vita. Parte della vivacità della vita
consiste nel nutrirsi incessantemente del 'nuovo', ma non dobbiamo
pensare alla verità come a uno stimolo per la vita. Perché la
verità non dovrebbe avere un’affinità molto maggiore con la
monotonia della morte piuttosto che con l’esuberanza sempre
rinnovata della vita?"
In realtà, gli esseri umani non trovano in alcun modo la
possibilità di elevarsi agli ideali, quali che siano. In modo
paradossale, la non-esistenza è associata al male, ma l’esistenza
non è ancora buona. Tutte le religioni, le morali e le etiche si
rivolgono, di fatto, a questo "non ancora" senza mettere in
discussione se esso sia realmente possibile nel mondo "così
com’è". Il radicalismo della domanda posta da Cabrera va
oltre la questione del suicidio come la conosciamo da Sartre e oltre
la riflessione sulle condizioni in cui la vita merita o meno di
essere vissuta (un discorso che è stato sepolto dalla morale
cristiana, per cui ogni tipo di suicidio, soprattutto quello dovuto
alla "disgusto per la vita", è considerato folle). Cabrera
osserva che le etiche positive si chiedono sempre come vivere
"ammettendo ab initio che non esiste, né può esistere, alcun
problema morale con il semplice fatto di esistere: tutti i problemi
morali sorgono 'dopo', nel dominio del come". Persino figure
antiche celebri che hanno commesso suicidio hanno affrontato la
questione dalla stessa prospettiva del "come", che hanno
cercato di ponderare nel modo più razionale possibile. Le parole di
Seneca sono significative in questo senso: "Se puoi essere
costretto a intraprendere qualcosa, significa che non sai morire".
Alla fine, si tratta sempre delle circostanze che l’uomo deve
controllare o dell’autocontrollo che lo porta a considerare le
circostanze indifferenti. Senza il raggiungimento della virtù e del
vero carattere tutto diventa gravoso, inclusa la felicità "se
non ben governata".
Le virtù, di fatto, non fanno altro che occupare il posto dei
desideri che impediscono all’anima di raggiungere se stessa. La
morte non è ancora vista come un male e, naturalmente, per l’élite,
può essere una benedizione, poiché la morte di un membro
dell’aristocrazia non è una questione di proprietà, come invece
lo è per uno schiavo (più precisamente, per il suo corpo). "Nel
322 Costantino decide che tutti i coloni fuggitivi devono essere
consegnati al padrone. […] Da quel momento, i beni di coloro che si
suicidano per sfuggire a un’accusa vengono confiscati e, passo dopo
passo, si stabilisce il legame tra confisca e colpevolezza del
suicidio" (Georges Minois, Storia del suicidio. La società
occidentale di fronte alla morte volontaria). La Chiesa
accentuerà questo legame, che rimarrà per secoli inamovibile,
ritenendo che un "servitore che si uccide deruba il proprio
padrone".
Cabrera è, naturalmente, consapevole della difficoltà della
domanda posta dall'etica negativa. Si tratta di una questione sul
valore dell'essere, posta da coloro che sono vivi e che mantengono
sempre un "legame affettivo" con la vita. La conoscenza può
porre fine al desiderio; è un "sedativo della volontà",
ma, dice Schopenhauer, aumenta la sofferenza. L'intelligenza e la
capacità di conoscere sé stessi non garantiscono più l'atarassia,
bensì, al contrario, un inferno senza fine. Percepire significa
percepire la sofferenza del mondo. Le analisi di Cabrera seguono
questa linea schopenhaueriana: il filosofo argentino è sensibile
alle analisi de Il mondo come volontà e rappresentazione,
in particolare a quelle che riguardano l'impossibilità di modificare
la volontà. Proprio per questo egli ci invita a uno sguardo esterno
sull'essere, considerandolo necessario in un mondo in cui la
manipolazione genetica è possibile e in cui i miglioramenti sognati
dalla biopolitica possono essere sostenuti brillantemente da
tecnologie che già superano l'immaginazione "morale" degli
esseri umani. Dobbiamo porci la domanda sul valore dell'essere, del
cessare di essere, del permettere o meno di essere, e non solo quella
sul valore degli esseri che già esistono.
Lo sguardo dall'esterno rivela, ancora una volta, cose
"monotone". Cabrera considera il suo lavoro una controprova
rispetto a ciò che Nietzsche ha reso chiaro: "l'essenziale
immoralità della vita, da due punti di vista simultanei: la
necessità inevitabile di organizzare le società sulla distruzione
degli altri e l'impossibilità di cercare una verità che non sia
compatibile con un'indefinita auto-difesa."
Inoltre, la struttura della vita si basa sul gioco
dolore-evitamento del dolore e sulla possibilità che un grande
degrado fisico (a causa di malattia o tortura) possa "squalificare
eticamente" l'individuo. Sembra quindi che "non esista
alcun argomento filosofico-razionale per recuperare la moralità del
creare l'esistenza di qualcuno, della nascita, dell'apparire nel
mondo [...] Possiamo comprendere tutte le forme di 'salvezza'
sviluppate dalla filosofia affermativa, ma nessuna di esse ci
permette di capire cosa significhi dare la vita a una persona per
salvarla."
"La vita buona all'interno della vita cattiva" diventa
argomento di dibattito anche per altri filosofi, pur non raggiungendo
il "radicalismo" di Cabrera, che è disposto ad accettare i
limiti di un progresso morale umano. Judith Butler è una delle
figure delle "etiche positive" (secondo la terminologia del
filosofo argentino).
Partendo dalla riflessione di Adorno sulla condotta da adottare
per raggiungere una vita buona all'interno di un mondo logorato da
disuguaglianza, ingiustizia e violenza, Butler si interroga sul
rapporto tra "condotta morale e condizioni sociali [...] in che
modo le operazioni di potere e dominazione influenzano il nostro modo
individuale di concepire la vita buona."
È difficile credere che la politica, vista come strumento di
amministrazione e miglioramento, possa offrire una risposta. Infatti,
il breve testo di Butler (Vite buone e vite cattive: Si può
vivere una buona vita in una vita cattiva?) lascia l'impressione
che la politica sia solo una sorta di luogo verso cui lanciare
domande, ma in fondo la condotta morale si riduce a forme di
resistenza (a volte protesta) e consapevolezza della precarietà
della vita.
Il passaggio sul lutto è significativo in tal senso: "Coloro
che vivono vite indegne di lutto a volte si organizzano in forme di
insurrezione pubblica per piangere i propri lutti, motivo per cui in
molti paesi è difficile distinguere tra un funerale e una
manifestazione." I corpi morti vengono esposti di fronte a chi
vive "vite riconosciute come degne di lutto."
Infatti, anche questi corpi morti vengono rapidamente dimenticati
se non raggiungono una pregnanza simbolica per coloro che vivono vite
degne. La colossale somma di denaro raccolta per il simbolo di
Notre-Dame in poche ore, confrontata con i numerosi appelli umanitari
per i morti del mondo che non possono vantare nemmeno lontanamente lo
stesso "successo", dimostra il basso grado di resistenza
dei soggetti alle operazioni di "potere e dominazione," che
continuano a segnare aggressivamente il confine tra "vite degne
di essere pianti" e quelle dispensabili.
Così, ogni vita riflette "un problema di disuguaglianza e
di potere e, in senso più ampio, un problema di giustizia e
ingiustizia nell’attribuzione del valore". Più chiaramente,
"non posso affermare la mia vita senza mettere criticamente in
discussione quelle strutture che assegnano valori differenti alla
vita stessa". Dovremmo tuttavia chiederci anche come questa
messa in discussione potrebbe diventare urgente, come potrebbe essere
portata oltre la soglia subliminale, come potrebbe trasformarsi in
"simbolo" o addirittura in imperativo.
La vita di coloro che sono degni di essere pianti è disseminata
di segni dell'ingiustizia che, anche se non l'hanno prodotta
direttamente (ognuno individualmente), l'hanno comunque mantenuta fin
dal primo respiro. Non esiste quasi nessun oggetto che, se
interrogato, non riporti alla mente l’ingiustizia e la sofferenza
con cui è stato prodotto. Dietro ogni smartphone, ogni pezzo di
cioccolato o chicco di caffè si nascondono atrocità indicibili. In
una contabilità macabra, si potrebbe persino calcolare quante vite
indegne di essere piante vengono consumate per una sola vita degna.
La cultura dell'autoaffermazione funziona basandosi sulla
"dottrina dello shock" descritta da Naomi Klein. Non si può
nemmeno definirla una società cinica: vedere opportunità nelle
calamità diventa una questione di "buon senso", persino
nei casi in cui non ha alcuna logica. Di recente, il segretario di
Stato Mike Pompeo ha tenuto un discorso in cui si diceva entusiasta
dello scioglimento dei ghiacciai dell'Antartide, che rivelerebbe
molte risorse non ancora sfruttate, pronte per essere
commercializzate. "L'Antartide è in prima linea nelle
opportunità e nell'abbondanza... ospita il 13% del petrolio non
ancora scoperto del mondo, il 30% del suo gas inesplorato,
un'abbondanza di uranio, minerali rari, oro, diamanti...". Che
il disastro ecologico possa devastare il pianeta è irrilevante. È
difficile credere che tali mentalità si preoccupino di dilemmi
morali, di ciò che Butler chiama "il desiderio di vivere in un
certo modo insieme agli altri". La vita viene vista come una
possibilità da sfruttare e ciò che viene preservato, in modo
paradossale, è proprio la possibilità dello sfruttamento.
La resistenza di cui parla Judith Butler riguarda la
vulnerabilità "precontrattuale" in cui viviamo tutti. In
altre parole, un mondo di corpi, o di ciò che ne resta dopo l'azione
della politica, che resiste alla politica attraverso l'empatia e
"l'apertura verso i corpi degli altri". Alla fine, la
scelta "cinica" è tra "dimenticare la moralità e il
proprio individualismo o dedicarsi alla lotta per la giustizia
sociale". Tuttavia, per Butler, la seconda opzione è
problematica nella misura in cui l'io coinvolto nella lotta può
essere "assorbito nella norma comune" e quindi distrutto. È
difficile dire cosa coordini quel mondo precontrattuale, poiché non
si tratta della resistenza di un singolo individuo, ma di intere
società. La consapevolezza dell'interdipendenza e il rifiuto, fisico
o intellettuale, di lasciarsi assorbire dal continuo perpetuarsi
dell'ineguaglianza possono creare le condizioni per una vita buona
(comune)?
Leggendo Judith Butler, ci si imbatte nello stesso ottimismo
delle "etiche positive", secondo cui l'umanità deve, in
definitiva, trovare un modo efficace di comunicare, che sia simbolico
o di altro tipo. Non siamo riusciti a diventare più razionali (il
sogno illuminista), ma speriamo (ancora una volta) di diventare più
empatici, più consapevoli o addirittura "migliorati". Allo
stesso modo in cui non mettiamo mai in discussione il valore
dell'essere vivi (ma solo il valore della vita una volta nata), non
dubitiamo neanche delle nostre capacità comunicative.
Cabrera ritiene che la non-comunicazione sia tanto
"strutturalmente ontologica" per l’uomo quanto
l’impossibilità di vivere moralmente all'interno della
"fondamentale immoralità della vita". Egli osserva che,
dal punto di vista della comunicazione, l’ottimismo si basa su
intelligibilità e volontà. Possiamo, attraverso la comunicazione,
diventare più comprensibili e persino cambiare ciò che qualcuno
vuole, ma esiste un terzo livello a cui non possiamo accedere, ed è
quello strutturale: oltre a "capire" e "voler capire",
esiste un livello "meta-volizionale", ovvero "essere
capaci di voler capire".
A questo livello si parla di una "radicale
non-comunicazione". La nostra struttura, che ci mantiene
nell’essere noi stessi e non altri (un io che, peraltro, non
conosce nemmeno sé stesso), ci impedisce di volere alcune cose e ci
porta a desiderarne altre. È, naturalmente, una banalità, ma
secondo Cabrera essa sta alla base di tutte le forme di violenza ed è
continuamente subita. Non solo "non comprendiamo tutto ciò che
vorremmo comprendere, ma non vogliamo nemmeno tutto ciò che vorremmo
voler".
Quindi, non si tratta solo del fatto che non posso comunicare con
l'altro, ma anche che non posso comunicare con me stesso (o meglio,
con ciò che voglio). Non esiste una politica o un’etica che possa
costruire il mondo comune partendo dal livello meta-volizionale. Ed è
proprio per questo che le domande radicali sulla vita meritano di
essere poste.
Per Cabrera, "la vita buona all'interno della vita cattiva",
a differenza di come la vedono moralisti, eticisti o giuristi, non
solo non può essere superata attraverso la comunicazione, ma le
nostre stesse etiche, il modo in cui funzionano e i valori su cui si
basano, producono continuamente il bene all'interno del male. Questo,
secondo il filosofo argentino, accade per due motivi:
Il motivo già menzionato, legato
all'assenza della domanda radicale (non solo su come vivere, ma
anche se il vivere abbia un valore);
La pratica di una "moralità di secondo grado",
basata su "occultamento", "ipocrisia" e
"orgoglio".
Ispirandosi parzialmente alle fonti greche (che enfatizzano il
dominio di sé e la riduzione dei propri desideri in vista di un bene
comune), Cabrera stabilisce un nuovo imperativo, che chiama
articolazione etica fondamentale (fundamental ethical articulation):
"Comportarsi in modo tale che non sia solo la difesa senza
restrizioni dei propri interessi a contare, essendo disposti – nel
caso in cui la considerazione degli interessi altrui lo richieda –
ad andare contro i propri interessi". A questo si aggiunge
il "principio dell’inviolabilità dell’altro",
impossibile da rispettare sin dall’inizio, dal momento che le
nostre società funzionano attraverso l’attribuzione di
caratteristiche, indicando costantemente ciò che è o non è
umano/disumano, persona/non-persona, cittadino/senza cittadinanza e
attraverso "l’amministrazione della violenza giusta".
Le nostre società non possono che essere società fondate
interamente su moralità di secondo grado, poiché producono sempre
paradossali e ipocrite "guerre giuste", "nemici",
"pericoli". Inoltre, esaltano smisuratamente
l'autoaffermazione e l'"orgoglio", che in fondo non può
essere ottenuto se non attraverso forme aggressive o, almeno, prive
di empatia verso l'altro. Così, "attraverso l’ipocrisia,
l’etica affermativa è falsa, e attraverso l’orgoglio è
bellicosa". Dal momento della nascita siamo praticamente
educati/manipolati (da tutto il sistema educativo e morale) ad
accettare i principi delle etiche positive, senza che ci venga mai
detto che essere in vita coincide con la violazione degli imperativi
sopra citati. Ogni individuo viene educato a diventare una piccola
istituzione di amministrazione della violenza e di perseguimento dei
propri interessi. "Se considerassimo le questioni morali
legate non solo al come vivere, ma anche al cosa vivere, vedremmo che
l’essere in sé può essere considerato problematico dal punto di
vista etico, poiché per essere (qualsiasi cosa) è necessario
trasgredire l’articolazione etica fondamentale" (Indeed,
if we consider also the moral issues connected to what to live (and
not only to how to live), we would see that being itself can be
considered as ethically problematical, that in order to be
(anything), it is necessary to transgress FEA).
Per constatare questa impossibilità di rispettare i principi
sopra menzionati, non è necessario guardare solo alle grandi
atrocità del mondo: basta sfogliare un qualsiasi manuale di
bioetica, che ci pone di fronte alla nostra incapacità di non
manipolare, di non nascondere, di non essere ipocriti e orgogliosi,
in un mondo in cui le tecnologie mettono in discussione la stessa
nozione di umanità come è stata definita fino ad oggi.
Gli effetti di una moralità di secondo grado sono disastrosi,
poiché cercano di proteggere principi fondamentali come l’autonomia,
il rispetto per la persona, il beneficio e la giustizia, senza
riconoscere che il semplice fatto di essere vivi li viola già, per
quanto cerchiamo di essere corretti.
Sloterdijk parlava della fase in cui l’umanità ha smesso di
riprodurre l’uomo attraverso l’uomo per iniziare a usare l’uomo
come risorsa. Questo uso dell'uomo diventa un consumo dell'uomo da
parte dell'uomo: non solo attraverso esperimenti come il Tuskegee
Study o il traffico di organi dei migranti, ma anche nel modo in cui
la scelta di un donatore può diventare un processo altamente
manipolativo.
Thomas Starzl, uno dei pionieri dei trapianti di rene e fegato, si
è espresso contro l'uso di donatori viventi perché, secondo la sua
esperienza, il membro "più debole" della famiglia subisce
spesso una pressione psicologica per diventare donatore, venendo
indotto a credere di "dovere" qualcosa agli altri e che la
sua vita abbia meno valore di quella degli altri. Ad esempio, tra più
sorelle idonee a donare un organo a un genitore, la pressione cade
spesso su quella non sposata e senza figli.
Gli esempi delle dilemmi bioetici potrebbero continuare
all’infinito, e indipendentemente dall'approccio adottato
(principialista, pragmatista, femminista, narrativista, ecc.), nella
misura in cui è affermativo, non fa altro che produrre paradossi. In
pratica, le etiche positive creano i contesti in cui non si salvano
vite, ma si sceglie quali vite salvare, giustificando in modo più o
meno intellettualizzato i conflitti tra "autonomia" e "ciò
che è meglio per qualcuno" (i casi più evidenti sono quelli
legati all’eutanasia e all’aborto).
Se volessimo seguire l'ipocrisia, l'orgoglio e il mascheramento
del meccanismo di amministrazione della violenza prodotti dalle
etiche positive, forse il caso più eclatante è quello
dell'"altruismo efficace" proposto da Peter Singer.
Seguendo un calcolo utilitarista felicista piuttosto
semplicistico, che mira a produrre "la maggiore quantità di
bene", e sulle tracce di uno spirito protestante, l'altruista
efficace è invitato, tra le altre cose, a "scegliere una
carriera in cui possa guadagnare il più possibile, non per vivere
nella ricchezza, ma per fare il massimo bene".
Non importa se questi soldi vengono guadagnati lavorando a Wall
Street, alla Banca Mondiale o possedendo grandi fabbriche di
abbigliamento. Più della metà del libro di Singer ci fornisce
esempi di uomini d'affari di successo che seguono questa strada, con
risposte estremamente deboli alle giuste critiche mosse nei loro
confronti.
In pratica, per diventare ricchi e fare il massimo "bene",
queste persone riproducono il sistema che genera disuguaglianza,
iniquità, povertà e atrocità indicibili su scala globale.
L'altruismo efficace è, in fondo, un altruismo egoistico: non
solo perché il bene che fanno li fa sentire bene, ma anche perché è
profondamente illogico. Certo, questi casi, evidenti per le somme di
denaro coinvolte nella filantropia d’affari, saltano più
facilmente all’occhio. Ma in realtà, l'altruismo egoistico è alla
base delle società basate sul consumo.
Il disastro ecologico e la scomparsa del 60% delle specie (solo
dagli anni '70 ad oggi) si basano sulla creazione di un individuo
che, pur essendo altruista mentre consuma il mondo, è completamente
privo della capacità di vedere il big picture o di agire a
livello sociale.
Probabilmente, neanche un altruismo a livello sociale
rappresenterebbe una via d'uscita dalle "etiche positive",
e resta da chiedersi se un "nichilismo attivo" individuale
potrebbe essere almeno in parte una risposta all'ipocrisia e
all'orgoglio.
Cercando di scoprire se, essendo già in vita, esiste una
possibile condotta individuale o comunitaria per vivere senza violare
“l’articolazione etica fondamentale” (considerare la vita
dell’altro come assolutamente inviolabile, essendo disposti ad
andare contro i propri interessi), specialmente in una cultura che
valorizza più che mai l’affermazione di sé, Cabrera trova solo
risposte parziali. Infatti, un individuo consapevole della radicalità
della domanda posta dall’etica negativa, fintanto che sceglie di
vivere, non può far altro che cercare di minimizzare gli effetti
negativi della propria esistenza. L’uscita dalla moralità di
secondo grado (quella che, come abbiamo visto, non fa altro che
giustificare la violenza) è impossibile. Di fatto, a questo
“sopravvissuto negativo” rimangono due possibilità: minimizzare
il contatto con gli altri il più possibile, oppure assumersi
qualsiasi rischio a cui sarà condotto nella misura in cui accetta di
non violare l’articolazione etica fondamentale (secondo la quale la
vita dell’altro non può mai, per nessuna giustificazione,
diventare sacrificabile). Così egli diventa una figura paradossale,
nella misura in cui il pensiero della negatività lo trasforma in una
sorta di cavaliere della rassegnazione, senza però mai poter
compiere, come la figura kierkegaardiana, il salto nella fede
(qualsiasi fede sarebbe una caduta ancora più profonda nella
moralità di secondo grado). D’altra parte, esiste la possibilità
che egli si trasformi in un eroe, che con il suo sacrificio riveli i
meccanismi della moralità di secondo grado. Ma questo sacrificio non
deve essere pensato nel modo bellico consueto (l’eroe che con la
morte esalta un’idea), bensì come una conseguenza “naturale”
attuata dai meccanismi della “giustizia”, che eliminano sempre il
tipo di eroe che rende visibile la loro ipocrisia e falsità. Martin
Luther King, Gandhi, Giordano Bruno e Gesù sono gli esempi che
Cabrera cita come figure di questo tipo di eroe, che non vede nella
morte una sconfitta, ma al contrario, considera che la vita a ogni
costo sia una continua sconfitta dell'umanità.
Se il rischio non appare nella vita del sopravvissuto negativo,
ciò che gli rimane è una continua coscienza infelice, che sottopone
ogni gesto e ogni incontro a domande radicali. Ci si aspetterebbe che
un modello di sopravvissuto negativo fosse Bartleby con il suo
costante rifiuto di “agire” (“I would prefer not to”) o il
suddetto cavaliere della rassegnazione. Ma per Cabrera, il
viaggiatore di Kafka è piuttosto l’esponente del sopravvissuto
negativo. “Come il viaggiatore di Kafka, al sopravvissuto negativo
non importa dove va; egli desidera solo uscire da qui (ovunque sia
questo qui). Abbandonare, mancare, lasciare il posto vuoto, questo è
il suo destino” (“As Kafka's traveler, the negative survivor does
not care about where he goes; he only wants to «get out of here»
(wherever «here» may be). Abandoning, vacating, leaving empty, this
is precisely his destiny”).
Forse ciò che si potrebbe rimproverare a Cabrera si trova qui,
nella figura del sopravvissuto a cui viene lasciata una via di fuga.
Sarebbe interessante un dialogo tra Cabrera e le nuove generazioni di
“nihilisti realisti” (come Badiou e Meillassoux, per esempio) che
non sono più nichilisti esistenziali (Cabrera lo è ancora), per i
quali la fatticità, l’irrazionalità del mondo e la contingenza
come unica necessità dell'universo sono dimostrate matematicamente
(attraverso la Teoria degli insiemi di Cantor). I valori sono
svalutati senza fare appello alla figura umana e alle sue credenze.
Meillassoux, per esempio, vuole distruggere “l’illusione
correlazionista”, secondo cui non esiste la possibilità di
“pensare indipendentemente le sfere dell’oggettività e della
soggettività”. Questo non porta solo all’impossibilità di
pensare gli archeofossili (che danno indizi sull’universo prima
della vita terrestre, cioè “manifestazione di un essere anteriore
alla sua manifestazione”), ma, sul piano spirituale, con l'erosione
delle metanarrazioni religiose, a una “pietà rimasta senza
contenuto, ora celebrata per se stessa da un pensiero che non può
più riempirla”.
Il sopravvissuto di Cabrera ha una preferenza per l’estetico,
per l’utopia, la fruizione mentale delle possibilità e mai della
loro realizzazione. “Colui che vive secondo il principio della
priorità del possibile sul reale è capace di godere di tutti i
vantaggi di ciò che non è, di ciò che non si istituisce, della
ricchezza del puro possibile, della perfezione dell'utopia, della
verità dell'omissione, della magia della distanza, della sensazione
di assenza, dell'amore ispirato dalla distanza e dell'ammirazione per
le opere mai scritte”.
Ciò che si potrebbe contestare a Cabrera è che non accompagna
questa astinenza con una sorta di “ecologia della mente”
altrettanto rigorosa. “L'irrazionalità manifesta del mondo è
un'irrazionalità in sé – una possibilità reale di diventare
altro senza alcuna ragione – e non un'irrazionalità per noi”
(Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine). Probabilmente, un dialogo
tra questi due tipi di nichilismo potrebbe produrre un” ecologia
radicale” e ristabilire un nuovo rapporto con la vita umana e non
umana, un tipo di “nichilismo attivo” che ridurrebbe
drasticamente le pretese della “grandezza umana”, rivelatasi
letale anche per l'ecosistema che sostiene la specie.
Foto e testo: Oana Pughineanu