marți, 17 februarie 2015

LO STRANIATO

In un brano di intervista inserito nel volume Antidoti, Ionesco confessa: “Quasi diciottenne, sentii più pungente il bisogno di trovare Dio e andai da un frate appena tornato dal Monte Athos. Mi confessai; mi disse: ‘Dai, dimmi, che cosa vuoi confessare?’. ‘Padre, feci cose terribili’. ‘Va bene, capisco, ma ciò non mi sembra troppo serio’. Insistetti nel raccontargliele. Mi disse: ‘Va bene, ti ascolterò, ma prima di confessarmi i tuoi peccati, dimmi se hai la fede’. ‘E’ proprio questo che avrei voluto scoprire’. ‘Guarda, è questa la cosa più importante; che tu abbia fatto chissà che cosa, che abbia ucciso o commesso un incesto, che tu abbia rubato, queste sono opere di questo mondo, non sono importanti; tu devi credere, tutto qui!’ ”.
            Ho scelto di iniziare il mio intervento con questa citazione perché credo che la domanda che abbiamo trovato, e che ci sembra alquanto assurda: “ho la fede, non ho la fede?”, apra una linea di interpretazione verso i dubbi e le contraddizioni che rendono fortemente particolare Eugène Ionesco. La sua opera è attraversata dall’oscillazioni fra due estremi: da una parte “tutto ciò non vuol dire nulla” eppure ogni opera, ogni singola cosa sono miracolose. Ionesco è continuamente soggetto a una meraviglia greca costante, che però non andrà mai di pari passo o non culminerà con la “grazia” di essere prescelti, come lo intende Sant’Agostino, ma non vorrà neppure cadere nella fissazione della razionalizzazione. Il fallo costante che lui individua nella letteratura è quello di rendere i tormenti umani una “specialità”, “un impegno sociale”. Il no di Ionesco non è solo avanguardista, poiché non nega un metodo o l’altro di fare letteratura, non nega il passato (anzi, credo che nella sua opera la nostalgia abbia una sorta di funzione metafisica o almeno sublimata), ma nega la capacita della letteratura di esprimere “qualcosa di essenziale per la vita” (Gelu Ionesco). Senz’altro, Ionesco si contraddisse spesse volte nelle sue affermazioni, la contraddizione essendo, più che un metodo di burla, come per un avanguardista come Tzara, una spia di autenticità... una spia ricevuta proprio dalla vita che gli sembrava miracolosa ed inutile allo stesso tempo. E’ già diventato luogo comune dire che la letteratura di Ionesco nasca dalla contestazione della letteratura. Ciò che è interessante però è il modo in cui questa “assenza di fede”, la perseveranza, l’accanimento con cui la seguì, generò un “metodo”, fece nascere il “teatro antipsicologico” e, in un certo senso, un’opera più unitaria di quanto non sembrasse all’inizio, tenuta insieme proprio dalla capacità di Ionesco di rimanere fedele alla sua assenza di fede nella letteratura.
            Dalla Cantatrice calva allo Straniato (l’unico romanzo scritto da Ionesco) identifico ciò che chiamerei l’antiteodicea di un fallito, individuabile sul piano letterario con l’incapacità di produrre metafore, con l’impossibilità di notare in senso classico una coerenza profonda che unisca le cose lontane. Il teatro di Ionesco altro non fa che schernire l’allettante falsità delle cose che crediamo patrimonio comune. L’uomo disegnato in Ionesco è una monade, che però non è più una riflessione dell’universo, ma appunto questa falsità del mondo in comune, che, ad un certo punto, si potrebbe ridurre alle frasi imparate da un manuale di inglese fai da te (come si saluta, come si mangia, come si compra ecc.). Dico un’antitheodicea poiché da Ionesco ciò che abbiamo in comune ci fa sempre decadere dallo stato di identità a quello di entità. Come i personaggi di Sartre, quelli di Ionesco vivono in un “futuro violentato”, in un mondo ridotto allo stato di ambiente in cui non possono farsi vedere le facce o gli eventi¸ ma spunta ogni tanto e del tutto a caso una serie di corpi, ovvero di oggetti/corpi di allestimento scenico.
            Come rappresentazione assoluta dell’antitheodicea di Ionesco, La Cantatrice calva mette in opera la dissoluzione del dialogo, che la tradizione greco-gidaica e cristiana ci ha abituati di percepire come metodo euristico, come metodo di ricerca del senso, dell’epicità, della coerenza e, finalmente, dell’unicità di quel dio con cui potessimo essere in accordo e che potesse comprenderci tutti quanti. E un dio tiepido, fatto a nostra sembianza. Credere in questo dio negoziato nel dialogo, nelle prove meschine di metterci d’accordo soltanto per nascondere l’incapacità di concepire o di far fronte ad un’Alterità, o, cosa ancor più terribile, all’assenza di tale Alterità, ci dice Ionesco, sarebbe un’opera veramente borghese. L’ironia del drammaturgo fu quella di mettere delle virgolette di dialogo fra le entità – monadi. Non un dialogo—ciò sarebbe davvero assurdo!—ma le virgolette di dialogo. Le infinite ripetizioni delle stesse serie di parole sono piuttosto comico – grottesche, senza essere allucinanti, poiché il Signore e la Signora Smith sono l’incarnazione paradossale di pupazzi meccanici. Possiamo dire che, in questo spazio segnato da una tremenda mancanza di flessibilità, gli “istinti” e l’“animalità” diventano quasi segni di umanità. Trovo notevole l’ossessione di Ionesco per le manie e i tic abitudinali: fuori dalla sfera limitativa del lavoro, tuttavia esse altro non rappresentano che un tentativo di ordinare la presupposta leggerezza del tempo libero, dell’intervallo. La mania abitudinale è il metodo più sensato per avvicinarci al piacere e Ionesco riesce ad inquadrare nella loro sterilità tutti i grandi eventi che facevano una volta concorrenza allo “stato civile”: la nascita, l’amore, la morte. Il matrimonio è un evento perfettamente collocabile fra il caffè e la lardo con patatine, è un’integrazione nella “larderia”.
            Ne Lo Straniato Ionesco cerca di percorrere a ritroso il cammino da lui delineato nell’opera teatrale. Dall’entità – monade nella trappola di essere uno specchio i cui riflessi sono utili per riconoscerci e inutili per conoscerci, Ionesco passa al personaggio dello straniato che vuole esplorare l’eventualità della permanenza nell’uomo di un residuo inalterato del sensatissimo dovere di riflettere la falsità delle cose che crediamo di avere in comune. Secondo Ionesco, il cammino dall’entità all’individuo si percorre soltanto staccandosi dalla società, dalle legioni di dio o della storia. Ma che cos’è che scopre lo straniato al momento dello stacco? La nausea continua di essere ottimista o pessimista, l’impossibilità di fare qualcos’altro oltre ad oscillare vertiginosamente fra noia e paura. Dopo aver mancato tutte le possibilità di diventare qualcuno, cioè un individuo “con subordinati”, lo straniato viene soccorso dalla fortuna dello zio d’America, dell’ultimo zio d’America. Le porte sembrano aperte, l’entità – monade che strascicava la sua esistenza nell’ufficio sembra salva. Ma la paralisi perdura. Sulla via verso l’individuo, l’entità altro non fa che scoprire di nuovo l’universale, ma ad un livello diverso. Se dovessi costruire un monologo dello straniato, direi così: Che abbia bisogno delle mie possibilità? Solo pensarci mi ha fatto sempre venire l’asma. Sono così immense, mi schiacciano... Eppure, non posso più vivere solo di paesaggio. Ondate di energia inutile e sporadica, inutile appunto perché sporadica, mi fanno capire che, fra possibilità e paesaggio, io vaghi come un insetto intrappolato fra i doppi vetri di una finestra perfettamente pulita, che non mi permette ne  di lasciarmi andare alla tentazione poetica di trasformare la miseria in avventura, né alla tentazione pratica di fare dell’avventura una miseria, una vita muscolosa ed impetuosa. Fra due vetri perfettamente tersi dimentico di scoprire le mie rivolte e di intasarle nella rubrica quotidiana. I rumori riconoscibili si ingoiano l’un l’altro e mi si offrono in una forma già triturata, extralinguistica, escludendo la possibilità, il bisogno e l’obbligo di identificare delle famiglie di suoni, delle famiglie di parole e delle famiglie in genere. Perdo la capacità di essere colpito, di credere in maniera panteistica nelle cose ed in maniera pan corporale nelle parole ... non possiedo più un inconscio abbastanza grande da poter, ogni tanto, diventar saggio. Il torpore si veste di levitazione e le domande che mi tormentavano giacciono ormai pesanti e scomposte come i ruderi dei templi di una civiltà estinta. Le loro dimensioni ci farebbero pensare a una “costruzione monumentale”. Di propria volontà divento fratello germano della sedia, della tavola e del letto.
Alla lite con la letteratura si aggiunge la lite con la filosofia. Forse senza rendersi conto, Ionesco- lo straniato commette lo stesso errore che rimprovera alla letteratura. La spia di quest’errore è l’ossessione con cui torna costantemente sul problema del finito incapace di comprendere l’infinito. Ma la visione dell’infinito nei termini della comprensione fa decadere il problema dal livello del paradosso esistenziale o della disperazione (per dirla con Kierkegaard) al livello logico.

Se dovessi vedere nei termini di Cioran il problema di Ionesco-lo straniato, direi che Ionesco si sbaglia sulla via verso l’individuo o verso la liberazione proprio a causa dell’incapacità di scoprire il vuoto. Ionesco-lo straniato tocca solo il nulla, ovvero “la variante sordida del vuoto”, in cui progiettiamo le nostre angosce e le nostre sconfitte. Scopre nella solitudine ciò che chiamerei il deragliamento dell’intenzionalità: la coscienza, benché coscienza di qualcosa, non lo è in relazione a qualcosa. Nella solitudine ci si interroga sull’utilità della relazione in sé, l’utilità dell’unione continua tra forma ed energia. Lo straniato si tuffa in uno stato di levitazione senza beatitudine, di levitazione a ritroso direi: “Mi sembrava che gli oggetti avessero perso la loro funzione. Me ne servivo, però mi sembrava che non fossero intenti a servire a ciò per cui li usavo io, anzi, che non potessero servire a niente. Ero immerso in un mondo nuovo e non sapevo che farmene. Un mondo che sarebbe dovuto essere utile a nulla. Ero in un mondo parallelo, in un mondo capovolto rispetto al nostro, dove niente era destinato a me, niente poteva essermi destinato”. Nella solitudine, la personalità, l’identità, il carattere, si sciolgono fino a diventare delle sensazioni mai convalidate dall’urto di una percezione. La solitudine è contraria al destino, cioè contraria alla proiezione, contraria alla fantasia ed incapace di produrre un campo d’azione. Per continuare nella linea di Kierkegaard, lo straniato raggiunge il livello della rassegnazione, senza arrivare anche a quello della fede. La domanda “chi sono io?” diventa svuotante di contenuto. La risposta non sta più nella buona tradizione della letteratura francese, in un impulso avido di elencare tutte le ragioni, tutte i trogoli di un’interiorità abituata a far suonare il campanello per rendere artificiali, tramite un mondo “accudito”, le attività più naturali, ma rappresenta piuttosto una modalità di estrarre il soggetto dal proprio ego – ecosistema. Il soggetto è libero, ma negativamente libero, “libero perché non c’è più nulla che lo possa ritenere”. Il livello della fede non viene mai raggiunto dallo straniato poiché tale livello sottende la creazione, l’accesso ad una metafora riordinatrice del mondo. L’ossessione del finito incapace di capire l’infinito tradisce in Ionesco una preoccupazione che chiamerei fenomenologica. Si tratta dell’eterna scontentezza di recepire il fenomeno entro i limiti fisici, psichici e addirittura metafisici. Ionesco è sempre irritato dal fatto che tutto diventi riducibile, riconoscibile. Anche il nostro dio è un dio dei nostri bisogni, non dei nostri appelli (il Vecchio e la Vecchia de Le sedie desiderano perfino l’eternità entro i limiti del possibile chiedono all’Imperatore di salvarli dall’oblio, accordando loro l’onore di diventare nomi di strade dopo la morte). Dio non diventa mai un orizzonte di proiezioni al di là del possibile, proprio come la letteratura di Ionesco non diventa una letteratura delle metafore che oltrepassino i confini dell’utilizzo del codice chiamato lingua. Il grande creatore del teatro dell’assurdo non potrebbe mai esclamare, come il fedele: “credo perché è assurdo”, ma piuttosto “non credo perché non posso pensare un’assurdità!”. Tornando su quello che dicevo all’inizio dell’intervento, faccio notare di nuovo che l’unità paradossale dell’opera di Ionesco viene dal rifiuto della metafora, e, in senso lato, dal rifiuto della creazione. Mi sembrano molto significative le dichiarazioni di No. Ionesco non vuole una letteratura della coerenza, le costruzioni gli sembrano fasulle: vuole “frasi - grido”, le uniche in grado di riassumere “con precisione e in maniera esauriente la disperazione del mondo”. “I gridi che si allungano in capitoli, in libri, in biblioteche intere non sono autentici. I dolori più grandi, i processi più complessi, le perplessità più opache, le domande fondamentali – ma anche l’intera problematica dell’umanità possono essere espressi così: in una sola frase, in un grido. Tutto il resto è letteratura. Nessun accento nuovo può essere acquistato”. L’opera teatrale di Ionesco rimane fedele a quest’antiletteratura del grido. E’ questa la ragione per cui ad una prima lettura ci sembrano “idiote”. Più di tutte le altre, le opere teatrali di Ionesco sono fatte per essere rappresentate, per dare spazio al grido in un teatro corporale quasi alla maniera di Arthaud. Letto, il lungo e direi così minuzioso manuale di inglese fai da te della drammaturgia di Ionesco sembra un’immensa accozzaglia di ready-made..., ciò che fa scaturire anche l’“idiozia”. Assurdo era piuttosto il metodo gogoliano, in cui Lucian Raicu aveva intravvisto l’unione sottile del banale e del fantastico. Eventi degni di uno zar inseriti nella vita comune. L’opera di Ionesco è la testimonianza dell’impossibilità di produzione di questi eventi, qualsiasi via scegliessimo di percorrere: dall’individuo al rinoceronte o viceversa. E’ questa la ragione per cui l’autore, benché adoperi nel suo unico romanzo uno dei metodi più classici: una cronologia seguita alla lettera, ciò che ci si intravvede dietro è l’incoerenza profonda, del destino, dell’uomo smarrito fra miracoli e banalità che ormai nessuna metafora può mettere insieme o trasfigurare. Ionesco è l’opposto di quel Dostoevski che confessava la nascita di tutti noi da “Il Capotto di Gogol”. Lo straniato è segnato da un doppio fallimento: in primo luogo, dall’impossibilità di poter partecipare, come Abramo e altri personaggi della Bibbia, ad un’ordalia che li porti oltre il mondo meschino dei miracoli fatti su misura per la nostra comprensione. Però allo straniato non manca soltanto la grandezza di Abramo. A lui viene rifiutato persino il confronto con la malattia e la morte, come viene sperimentato da Ivan Il’ic. Allo straniato viene rifiutato persino il grido continuo di Ivan Il’ic, per tre giorni e tre notti. La sua disperazione viene dal fallimento di ogni confronto. Lo straniato sceglie di diventare un Oblomov, uno a cui manca la fantasia. I limiti tanto irritanti che rendono il mondo eternamente riconoscibile sono sciolti soltanto dalla nostalgia, dalla noia e dalla paura. Queste sono le tre grazie della nausea esistenziale che, proprio come delle gocce malcapitate di pioggia, sfumano i contorni di tutte le cose che esistono, miracolosamente ed inutilmente, nell’antitheodicea di un fallito. Il solo assioma dello straniato sembra essere: poiché ci sono passato, vuol dire che esisto.  
          Oana Pughineanu
Traducere de Ana Maria Gebăilă

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