In
un brano di intervista inserito nel volume Antidoti,
Ionesco confessa: “Quasi diciottenne, sentii più pungente il bisogno di trovare
Dio e andai da un frate appena tornato dal Monte Athos. Mi confessai; mi disse:
‘Dai, dimmi, che cosa vuoi confessare?’. ‘Padre, feci cose terribili’. ‘Va
bene, capisco, ma ciò non mi sembra troppo serio’. Insistetti nel
raccontargliele. Mi disse: ‘Va bene, ti ascolterò, ma prima di confessarmi i
tuoi peccati, dimmi se hai la fede’. ‘E’ proprio questo che avrei voluto
scoprire’. ‘Guarda, è questa la cosa più importante; che tu abbia fatto chissà
che cosa, che abbia ucciso o commesso un incesto, che tu abbia rubato, queste
sono opere di questo mondo, non sono importanti; tu devi credere, tutto qui!’
”.
Ho scelto di iniziare il mio
intervento con questa citazione perché credo che la domanda che abbiamo
trovato, e che ci sembra alquanto assurda: “ho la fede, non ho la fede?”, apra
una linea di interpretazione verso i dubbi e le contraddizioni che rendono
fortemente particolare Eugène Ionesco. La sua opera è attraversata
dall’oscillazioni fra due estremi: da una parte “tutto ciò non vuol dire nulla”
eppure ogni opera, ogni singola cosa sono miracolose. Ionesco è continuamente
soggetto a una meraviglia greca costante, che però non andrà mai di pari passo
o non culminerà con la “grazia” di essere prescelti, come lo intende
Sant’Agostino, ma non vorrà neppure cadere nella fissazione della
razionalizzazione. Il fallo costante che lui individua nella letteratura è
quello di rendere i tormenti umani una “specialità”, “un impegno sociale”. Il no di Ionesco non è solo avanguardista,
poiché non nega un metodo o l’altro di fare letteratura, non nega il passato
(anzi, credo che nella sua opera la nostalgia abbia una sorta di funzione
metafisica o almeno sublimata), ma nega la capacita della letteratura di
esprimere “qualcosa di essenziale per la vita” (Gelu Ionesco). Senz’altro,
Ionesco si contraddisse spesse volte nelle sue affermazioni, la contraddizione
essendo, più che un metodo di burla, come per un avanguardista come Tzara, una
spia di autenticità... una spia ricevuta proprio dalla vita che gli sembrava
miracolosa ed inutile allo stesso tempo. E’ già diventato luogo comune dire che
la letteratura di Ionesco nasca dalla contestazione della letteratura. Ciò che
è interessante però è il modo in cui questa “assenza di fede”, la perseveranza,
l’accanimento con cui la seguì, generò un “metodo”, fece nascere il “teatro
antipsicologico” e, in un certo senso, un’opera più unitaria di quanto non
sembrasse all’inizio, tenuta insieme proprio dalla capacità di Ionesco di
rimanere fedele alla sua assenza di fede nella letteratura.
Dalla Cantatrice calva allo Straniato
(l’unico romanzo scritto da Ionesco) identifico ciò che chiamerei
l’antiteodicea di un fallito, individuabile sul piano letterario con
l’incapacità di produrre metafore, con l’impossibilità di notare in senso
classico una coerenza profonda che unisca le cose lontane. Il teatro di Ionesco
altro non fa che schernire l’allettante falsità delle cose che crediamo
patrimonio comune. L’uomo disegnato in Ionesco è una monade, che però non è più
una riflessione dell’universo, ma appunto questa falsità del mondo in comune,
che, ad un certo punto, si potrebbe ridurre alle frasi imparate da un manuale
di inglese fai da te (come si saluta, come si mangia, come si compra ecc.).
Dico un’antitheodicea poiché da Ionesco ciò che abbiamo in comune ci fa sempre
decadere dallo stato di identità a quello di entità. Come i personaggi di
Sartre, quelli di Ionesco vivono in un “futuro violentato”, in un mondo ridotto
allo stato di ambiente in cui non possono farsi vedere le facce o gli eventi¸ ma
spunta ogni tanto e del tutto a caso una serie di corpi, ovvero di oggetti/corpi
di allestimento scenico.
Come rappresentazione assoluta
dell’antitheodicea di Ionesco, La Cantatrice calva mette in opera la
dissoluzione del dialogo, che la tradizione greco-gidaica e cristiana ci ha
abituati di percepire come metodo euristico, come metodo di ricerca del senso,
dell’epicità, della coerenza e, finalmente, dell’unicità di quel dio con cui
potessimo essere in accordo e che potesse comprenderci tutti quanti. E un dio
tiepido, fatto a nostra sembianza. Credere in questo dio negoziato nel dialogo,
nelle prove meschine di metterci d’accordo soltanto per nascondere l’incapacità
di concepire o di far fronte ad un’Alterità, o, cosa ancor più terribile,
all’assenza di tale Alterità, ci dice Ionesco, sarebbe un’opera veramente
borghese. L’ironia del drammaturgo fu quella di mettere delle virgolette di
dialogo fra le entità – monadi. Non un dialogo—ciò sarebbe davvero assurdo!—ma
le virgolette di dialogo. Le infinite ripetizioni delle stesse serie di parole
sono piuttosto comico – grottesche, senza essere allucinanti, poiché il Signore
e la Signora Smith sono l’incarnazione paradossale di pupazzi meccanici.
Possiamo dire che, in questo spazio segnato da una tremenda mancanza di
flessibilità, gli “istinti” e l’“animalità” diventano quasi segni di umanità.
Trovo notevole l’ossessione di Ionesco per le manie e i tic abitudinali: fuori
dalla sfera limitativa del lavoro, tuttavia esse altro non rappresentano che un
tentativo di ordinare la presupposta leggerezza del tempo libero,
dell’intervallo. La mania abitudinale è il metodo più sensato per avvicinarci
al piacere e Ionesco riesce ad inquadrare nella loro sterilità tutti i grandi
eventi che facevano una volta concorrenza allo “stato civile”: la nascita,
l’amore, la morte. Il matrimonio è un evento perfettamente collocabile fra il
caffè e la lardo con patatine, è un’integrazione nella “larderia”.
Ne Lo Straniato Ionesco cerca di percorrere
a ritroso il cammino da lui delineato nell’opera teatrale. Dall’entità – monade
nella trappola di essere uno specchio i cui riflessi sono utili per
riconoscerci e inutili per conoscerci, Ionesco passa al personaggio dello
straniato che vuole esplorare l’eventualità della permanenza nell’uomo di un
residuo inalterato del sensatissimo dovere di riflettere la falsità delle cose
che crediamo di avere in comune. Secondo Ionesco, il cammino dall’entità
all’individuo si percorre soltanto staccandosi dalla società, dalle legioni di
dio o della storia. Ma che cos’è che scopre lo straniato al momento dello
stacco? La nausea continua di essere ottimista o pessimista, l’impossibilità di
fare qualcos’altro oltre ad oscillare vertiginosamente fra noia e paura. Dopo
aver mancato tutte le possibilità di diventare qualcuno, cioè un individuo “con
subordinati”, lo straniato viene soccorso dalla fortuna dello zio d’America,
dell’ultimo zio d’America. Le porte sembrano aperte, l’entità – monade che
strascicava la sua esistenza nell’ufficio sembra salva. Ma la paralisi perdura.
Sulla via verso l’individuo, l’entità altro non fa che scoprire di nuovo
l’universale, ma ad un livello diverso. Se dovessi costruire un monologo dello
straniato, direi così: Che abbia bisogno
delle mie possibilità? Solo pensarci mi ha fatto sempre venire l’asma. Sono
così immense, mi schiacciano... Eppure, non posso più vivere solo di paesaggio.
Ondate di energia inutile e sporadica, inutile appunto perché sporadica, mi
fanno capire che, fra possibilità e paesaggio, io vaghi come un insetto
intrappolato fra i doppi vetri di una finestra perfettamente pulita, che non mi
permette ne di lasciarmi andare alla
tentazione poetica di trasformare la miseria in avventura, né alla tentazione
pratica di fare dell’avventura una miseria, una vita muscolosa ed impetuosa.
Fra due vetri perfettamente tersi dimentico di scoprire le mie rivolte e di
intasarle nella rubrica quotidiana. I rumori riconoscibili si ingoiano l’un
l’altro e mi si offrono in una forma già triturata, extralinguistica,
escludendo la possibilità, il bisogno e l’obbligo di identificare delle
famiglie di suoni, delle famiglie di parole e delle famiglie in genere. Perdo
la capacità di essere colpito, di credere in maniera panteistica nelle cose ed
in maniera pan corporale nelle parole ... non possiedo più un inconscio
abbastanza grande da poter, ogni tanto, diventar saggio. Il torpore si veste di
levitazione e le domande che mi tormentavano giacciono ormai pesanti e
scomposte come i ruderi dei templi di una civiltà estinta. Le loro dimensioni
ci farebbero pensare a una “costruzione monumentale”. Di propria volontà divento
fratello germano della sedia, della tavola e del letto.
Alla lite con la letteratura si aggiunge la lite con la
filosofia. Forse senza rendersi conto, Ionesco- lo straniato commette lo stesso
errore che rimprovera alla letteratura. La spia di quest’errore è l’ossessione
con cui torna costantemente sul problema del finito incapace di comprendere
l’infinito. Ma la visione dell’infinito nei termini della comprensione fa
decadere il problema dal livello del paradosso esistenziale o della
disperazione (per dirla con Kierkegaard) al livello logico.
Se
dovessi vedere nei termini di Cioran il problema di Ionesco-lo straniato, direi
che Ionesco si sbaglia sulla via verso l’individuo o verso la liberazione
proprio a causa dell’incapacità di scoprire il vuoto. Ionesco-lo straniato
tocca solo il nulla, ovvero “la variante sordida del vuoto”, in cui
progiettiamo le nostre angosce e le nostre sconfitte. Scopre nella solitudine
ciò che chiamerei il deragliamento dell’intenzionalità: la coscienza, benché
coscienza di qualcosa, non lo è in relazione a qualcosa. Nella solitudine ci si
interroga sull’utilità della relazione in sé, l’utilità dell’unione continua
tra forma ed energia. Lo straniato si tuffa in uno stato di levitazione senza beatitudine, di levitazione
a ritroso direi: “Mi sembrava che gli oggetti avessero perso la loro funzione.
Me ne servivo, però mi sembrava che non fossero intenti a servire a ciò per cui
li usavo io, anzi, che non potessero servire a niente. Ero immerso in un mondo
nuovo e non sapevo che farmene. Un mondo che sarebbe dovuto essere utile a
nulla. Ero in un mondo parallelo, in un mondo capovolto rispetto al nostro,
dove niente era destinato a me, niente poteva essermi destinato”. Nella
solitudine, la personalità, l’identità, il carattere, si sciolgono fino a
diventare delle sensazioni mai convalidate dall’urto di una percezione. La
solitudine è contraria al destino, cioè contraria alla proiezione, contraria
alla fantasia ed incapace di produrre un campo d’azione. Per continuare nella
linea di Kierkegaard, lo straniato raggiunge il livello della rassegnazione, senza arrivare
anche a quello della fede. La domanda “chi sono io?” diventa svuotante di
contenuto. La risposta non sta più nella buona tradizione della letteratura
francese, in un impulso avido di elencare tutte le ragioni, tutte i trogoli di
un’interiorità abituata a far suonare il campanello per rendere artificiali,
tramite un mondo “accudito”, le attività più naturali, ma rappresenta piuttosto
una modalità di estrarre il soggetto dal proprio ego – ecosistema. Il soggetto
è libero, ma negativamente libero, “libero perché non c’è più nulla che lo
possa ritenere”. Il livello della fede non viene mai raggiunto dallo straniato
poiché tale livello sottende la creazione, l’accesso ad una metafora riordinatrice
del mondo. L’ossessione del finito incapace di capire l’infinito tradisce in
Ionesco una preoccupazione che chiamerei fenomenologica. Si tratta dell’eterna
scontentezza di recepire il fenomeno entro i limiti fisici, psichici e
addirittura metafisici. Ionesco è sempre irritato dal fatto che tutto diventi
riducibile, riconoscibile. Anche il nostro dio è un dio dei nostri bisogni, non
dei nostri appelli (il Vecchio e la Vecchia de Le sedie desiderano perfino l’eternità entro i limiti del possibile
chiedono all’Imperatore di salvarli dall’oblio, accordando loro l’onore di
diventare nomi di strade dopo la morte). Dio non diventa mai un orizzonte di
proiezioni al di là del possibile, proprio come la letteratura di Ionesco non
diventa una letteratura delle metafore che oltrepassino i confini dell’utilizzo
del codice chiamato lingua. Il grande creatore del teatro dell’assurdo non
potrebbe mai esclamare, come il fedele: “credo perché è assurdo”, ma piuttosto
“non credo perché non posso pensare un’assurdità!”. Tornando su quello che
dicevo all’inizio dell’intervento, faccio notare di nuovo che l’unità
paradossale dell’opera di Ionesco viene dal rifiuto della metafora, e, in senso
lato, dal rifiuto della creazione. Mi sembrano molto significative le dichiarazioni
di No. Ionesco non vuole una
letteratura della coerenza, le costruzioni gli sembrano fasulle: vuole “frasi -
grido”, le uniche in grado di riassumere “con precisione e in maniera
esauriente la disperazione del mondo”. “I gridi che si allungano in capitoli,
in libri, in biblioteche intere non sono autentici. I dolori più grandi, i
processi più complessi, le perplessità più opache, le domande fondamentali – ma
anche l’intera problematica dell’umanità possono essere espressi così: in una
sola frase, in un grido. Tutto il resto è letteratura. Nessun accento nuovo può
essere acquistato”. L’opera teatrale di Ionesco rimane fedele a
quest’antiletteratura del grido. E’ questa la ragione per cui ad una prima
lettura ci sembrano “idiote”. Più di tutte le altre, le opere teatrali di
Ionesco sono fatte per essere rappresentate, per dare spazio al grido in un
teatro corporale quasi alla maniera di Arthaud. Letto, il lungo e direi così
minuzioso manuale di inglese fai da te della drammaturgia di Ionesco sembra un’immensa
accozzaglia di ready-made..., ciò che
fa scaturire anche l’“idiozia”. Assurdo era piuttosto il metodo gogoliano, in
cui Lucian Raicu aveva intravvisto l’unione sottile del banale e del
fantastico. Eventi degni di uno zar inseriti nella vita comune. L’opera di
Ionesco è la testimonianza dell’impossibilità di produzione di questi eventi,
qualsiasi via scegliessimo di percorrere: dall’individuo al rinoceronte o
viceversa. E’ questa la ragione per cui l’autore, benché adoperi nel suo unico
romanzo uno dei metodi più classici: una cronologia seguita alla lettera, ciò
che ci si intravvede dietro è l’incoerenza profonda, del destino, dell’uomo
smarrito fra miracoli e banalità che ormai nessuna metafora può mettere insieme
o trasfigurare. Ionesco è l’opposto di quel Dostoevski che confessava la
nascita di tutti noi da “Il Capotto di Gogol”. Lo straniato è segnato da un
doppio fallimento: in primo luogo, dall’impossibilità di poter partecipare,
come Abramo e altri personaggi della Bibbia, ad un’ordalia che li porti oltre
il mondo meschino dei miracoli fatti su misura per la nostra comprensione. Però
allo straniato non manca soltanto la grandezza di Abramo. A lui viene rifiutato
persino il confronto con la malattia e la morte, come viene sperimentato da
Ivan Il’ic. Allo straniato viene rifiutato persino il grido continuo di Ivan
Il’ic, per tre giorni e tre notti. La sua disperazione viene dal fallimento di
ogni confronto. Lo straniato sceglie di diventare un Oblomov, uno a cui manca la
fantasia. I limiti tanto irritanti che rendono il mondo eternamente
riconoscibile sono sciolti soltanto dalla nostalgia, dalla noia e dalla paura.
Queste sono le tre grazie della nausea esistenziale che, proprio come delle
gocce malcapitate di pioggia, sfumano i contorni di tutte le cose che esistono,
miracolosamente ed inutilmente, nell’antitheodicea di un fallito. Il solo
assioma dello straniato sembra essere: poiché ci sono passato, vuol dire che
esisto.
Oana Pughineanu
Traducere de Ana Maria Gebăilă
Oana Pughineanu
Traducere de Ana Maria Gebăilă
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