duminică, 2 noiembrie 2025
L’ultimo sogno terrestre
Non è mai tardi per essere troppo tardi
Trent’anni. A Cluj. Così tanto tempo, che diventa destino. Il momento in cui ho messo piede per la prima volta sulle strade di questa città e il giorno di oggi. Allora “pioveva come non avevo mai visto”. Adesso, mentre scrivo queste righe, allo stesso modo. Una pioggia che ristagna da tre decenni nella mia mente, sebbene “tutto sia stato bello e non mi sia fatto male nulla”. Non fu amore a prima vista tra me e questa città. Né alla seconda, né a innumerevoli altri sguardi. Ma non è mai troppo tardi per essere troppo tardi. Questo, per molte ragioni soggettive (il desiderio/la pressione di andarmene da casa dopo il liceo) e oggettive (tra cui le quindici traslochi in affitto, alcuni degni di un vero realismo magico sudamericano). Una questione di feng shui, come quando dormi in un luogo estraneo e il letto è messo con la “testa al contrario” e, per quante volte ti giri, resta sempre al contrario. Col tempo, si sono costituiti due Cluj nella mente: quello di allora e quello di adesso, così come anch’io sono diventata quella di allora e quella… che scrive queste parole. Non potrei scrivere “quella di adesso”. Non mi è stato dato d’incontrare in questa vita un “adesso”. È faccenda da sciamani, da politici, da folle, da concerti e festival. Esistono però punti nodali, immagini, spazi in cui i due Cluj coesistono. Uno di questi è via Piezișă. Ai miei tempi non era ancora asfaltata, e rappresentava un misto tra il quartiere studentesco Hașdeu (con il mammut del dormitorio 16 dei ragazzi, un mix di carne, piatti non lavati e calzini di un odore alieno) e una fila di case che non erano state demolite. Il ricordo più pregnante che ho di trent’anni fa su questa strada è lo sgabello a tre gambe che scoprii in una costruzione che oggi, sui siti delle agenzie immobiliari, si chiamerebbe “rustico”, ma che in realtà era un bar. Aveva una vecchia stufa, alcuni tavoli, sedie e una tinteggiatura con motivi, nello stile delle case di campagna costruite negli anni ’50. E il suddetto sgabello che avevo visto solo nella cucina della mia bisnonna e che, grazie alle gambe corte, veniva usato per ingozzare le oche, che erano più facili da immobilizzare nella posizione in cui ti lasciava sedere questo strano oggetto interstellare. L’ho rivisto poi solo nei musei etnografici e nel ricordo di questo cosiddetto bar. Era qualcosa di insolito anche per il medioevo degli anni ’90, e adesso mi brilla in mente come un vero monumento delle trasformazioni che si sono abbattute su questa città. Non sono più passato da alcuni anni su Piezișă, ma suppongo che fosse già abbastanza modernizzata anche l’ultima volta che l’ho vista. Penetrata dallo spirito open space, una grande sala fitness cosparsa di distributori automatici di hamburger, shawarma e birre artigianali sotto il patrocinio di un immenso poster stradale raffigurante le benedizioni del videochat.
Un altro punto nodale è rappresentato da via delle Arti, dove il destino mi ha collocato tre volte, in affitti diversi, occupando stanze bengesciane interbelliche. La rottura accidentale di un soprammobile poteva essere fatale. Erano solo gli inizi del passaggio verso il business… Le case che allora avevano ancora cortili o addirittura giardini, ora sono tutte imbottite di cemento e di varie appendici buone per l’affitto. La piccola parcella di prato all’inglese è diventata molto più tardi un must have. È grande quanto uno zerbino, ma conferisce istantaneamente un’aria da centro commerciale o ufficio di lusso. Ma sono nata troppo presto per queste raffinate regolazioni. Trent’anni fa i pollai erano davvero pollai. Analogici, senza un briciolo di digitale. Per un anno intero ho pensato e respirato in una mansarda costruita sopra un porcile. Ogni notte ho compreso la parabola dei demoni cacciati in questi, peraltro, magnifici animali. Suoni difficili da descrivere ci macinavano (a me e alle due colleghe di stanza) le sinapsi fino all’alba. E anche loro probabilmente stavano in affitto in quella mini-fattoria che voleva essere una mini-azienda agricola e una distilleria. Siamo sopravvissute meno di loro, ritrovandoci un giorno con i bagagli gettati sotto la pioggia, ma fiere (senza saperlo allora) di aver partecipato all’ottenimento di quel “primo milione” che poi la mano invisibile avrebbe trasformato in ondate di benessere generazionale, a cinque stelle. Avevo 20 anni, sapevo ancora come vendicarmi, e ho vomitato nella botte di vino dei padroni di casa. E così, come si direbbe nella lingua del XXI secolo, ci furono offerte nuove opportunità che resteranno per sempre non registrate. Al Cluj studentesco si è aggiunto il Cluj ultra-corporate. O, meglio, vi si è sovrapposto. I ritmi di questa nuova città mi restano parzialmente estranei (sorgendo dal mondo degli sgabelli a tre gambe ho mancato l’iniziazione all’arte del continuo perfezionamento e auto-siliconizzazione di sé, non so fare di ogni inspirazione un progetto e di ogni espirazione un evento), mentre per il resto… non esiste più il tempo o la pazienza proustiana per rovistare nei mercatini dell’usato della propria mente.
Restano alcune impronte, il vento, la prima luna di nebbia e le colline che sembrano degli tsunami (in una certa luce celeste e animica abbastanza impura) che mi sono sempre piaciute a Cluj. Tutto il resto si dissolve silenziosamente in malinconia, una nuova placenta attraverso la quale fluttui, in cui ti riassorbi e ti dici ogni volta che riaffiorano nella mente gli sgabelli a tre gambe: sero te amavi (ti ho amato così tardi)!